Amore e psiche



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Imprevisti sentimentali

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Imprevisti sentimentali


Me ne sto seduto al mio posto, a guardare fuori. L' immagine del mio viso si riflette, di colpo, sul vetro del finestrino, mentre passiamo sotto un ponticello. Mi dà la stessa sensazione di quando guardo una foto scattata all'improvviso. Di nuovo luce e spazi aperti. Il paesaggio visto dal treno, è più monotono di quanto sia in realtà, penso.

Chissà perché ogni volta che faccio un viaggio, per quanto possa essere di breve durata, mi viene in mente questa banalità. Eppure io, sono tutt'altro che un uomo banale. Do un'occhiata fuori dallo scompartimento. C'è una ragazza che fuma. Avrà si e no vent'anni. Seguo i suoi movimenti con lo sguardo. Sorride. La raggiunge un ragazzo, della sua stessa età o di poco più grande. Le ruba per gioco la sigaretta. Vuole un premio per ridargliela indietro. Si baciano. E' avido, uno non basta. Mi volto. Provo a chiudere gli occhi. Anche se non riesco a dormire, potrò almeno riposare, mi dico. Un rumore improvviso mi riporta alla realtà. E' una voce di donna, che chiede i biglietti. Faccio un cenno, e mi alzo per cercare nell'impermeabile. Lei intanto, si rivolge all'unica persona presente nello scompartimento, oltre me. Porgo il biglietto, e mi riaccomodo. Dopo la timbratura, lo metto nella tasca della giacca. La porta si richiude con un sibilo. Il treno continua a correre imperturbato lungo i binari. Scorrono davanti a me, come se fossero soltanto tratteggiati, campi coltivati, piccole cittadine, colline. Mi viene in mente Giulia. Due settimane che non la vedo e a me sembra un secolo. Fantastico un po'. Unire un giorno di ferie al fine settimana, è stata un'ottima idea. Come quella di non dirle nulla. Essere imprevedibili, ecco il segreto che mantiene vivo un rapporto di coppia. Siamo arrivati alla stazione di Arezzo. La sosta sarà di qualche minuto. Ne approfitto per alzarmi e andare nel corridoio, a fumare. Arrivo fino alla fine del vagone. Salgono due passeggeri, un uomo e una donna piuttosto giovane, che si infilano nel primo scompartimento, vicino all'entrata. Giusto il tempo di sbirciare nell'altra carrozza, e il treno ricomincia a muoversi. Torno indietro. Finisco senza fretta la sigaretta, e poi rientro. Con sorpresa, trovo una persona diversa, seduta al posto del passeggero con cui ho viaggiato fin qui. Tra le mani ha un giornale di cui non riesco a capire il nome. Mi metto seduto, senza dire una parola. Sembra non si sia neanche accorto della mia presenza, tanto è assorto nella lettura.

Il mio sguardo si fissa, più per noia che per curiosità, sui particolari. Le scarpe ad esempio, qualità direi discutibile, di un color beige sbiadito che per giunta non si intona con il resto del suo abbigliamento. Roba da grandi magazzini.

Quello che mi colpisce maggiormente, però, è l'odore sgradevole del deodorante che indossa. Assolutamente dozzinale. E poi, è grasso. Avrà almeno una quindicina di chili in più addosso. Cerco qualcosa di più interessante verso cui rivolgere la mia attenzione. Lui abbassa il giornale. I nostri sguardi, inevitabilmente, si incrociano. I capelli sono unti e spettinati. I lineamenti del viso non mi danno la sensazione che sia particolarmente intelligente.
«Salve!» esclama, sorridendo.
«Buongiorno a lei» rispondo.
Tamburella con le dita sulla gamba, mentre continua a guardarmi. Non credo sia per nervosismo.

Direi piuttosto che sembri indeciso se continuare a parlare, oppure riprendere a leggere il giornale. Iniziamo a chiacchierare del più e del meno. Devo essergli rimasto simpatico. L'accento toscano è piuttosto marcato, anche se io francamente non saprei dire da quale provincia provenga con esattezza.
«Romano de Roma?» mi chiede, all'improvviso, scimmiottando, malamente, una cadenza capitolina.

Ride.
«No. La mia famiglia è di origine napoletana. Lei è aretino?» dico, sorridendo a mia volta.
L'uomo strabuzza gli occhi.
«Are… che?» domanda.
Mi ha colto di sorpresa. Penso ad uno scherzo. Lo guardo con l'espressione di chi ha scoperto il trucco, mentre il prestigiatore continua a dire di guardare attentamente le sue mani. Lui assume un'espressione interrogativa.
«Che m'ha chiesto, mi scusi?» dice.
Non sta fingendo. La consapevolezza che il tizio seduto davanti a me non stia scherzando, mi lascia un po' di amaro in bocca.
«Se è di Arezzo» dico, con sufficienza. Lui ride ancora.
«Oh, ma che parole usa? Sono di Siena. Contrada della Selva.» risponde, con malcelato orgoglio.
Ride di nuovo. Ho l'impressione che sia convinto che tra noi due, lo strano non possa che essere io.
Prende il giornale che pareva aver dimenticato. Guardo il nome: La Selva. Tutto torna, allora. Lo apre davanti a me, distendendo le braccia. La sua testa fa capolino da dietro i fogli. Gli occhi si sono accesi di una luce, che non è facile da definire. Un misto tra estasi e furore.

Con quello stesso sguardo percorre una ad una le lettere che compongono il titolo trionfale che campeggia in prima pagina: La Selva beffa tutte le Contrade e strappa il Cencio.
«Vede? Noi s'è vinto il Palio, quest'anno. Davanti a tutti » esclama.
Manca poco che si metta ad urlare per l'eccitazione. Annuisco convinto, sperando che questo smorzi i suoi entusiasmi. Mi fermo un attimo a riflettere, colto da un dubbio. Ma noi siamo a novembre, penso.
«Ma quel giornale di quando è?» domando perplesso.
«Di agosto. Me lo porto dietro da allora, e ogni tanto lo rileggo.» ribatte il mio interlocutore.
Posa di nuovo il giornale sul sedile di fianco a sé. Guarda l'ora con impazienza.
«Sta andando anche lei a Firenze?» chiedo.
«Si. Vado dalla mia fidanzata.» risponde. Ammicca.
Lo osservo, con una certa simpatia nonostante i suoi modi rozzi. E poi ride sempre. Per qualsiasi sciocchezza.

Beh, gente allegra il ciel l'aiuta, mi dico. Chissà che cosa ne penserebbe Giulia, se fosse qui. Provo a immaginare come possa essere la donna a cui è piaciuto un tipo così. Come una staffilata, mi arriva alla mente la visione di una grassona, truccata pesantemente e soprattutto sboccata come un camionista. Dio, che coppia. Una meraviglia. Non riesco a frenarmi. Sbotto a ridere. L'uomo mi guarda, perplesso.

«Che cafone. Non mi sono neanche presentato. Alberto De Giorgi » dico, continuando a ridere.
Gli porgo la mano, d'istinto, e solo un attimo dopo realizzo che potrebbe non essere piacevole stringerla. Magari è tutta sudata. Vorrei tirarla indietro, ma ormai mi sono già mosso. Poi di fare una figuraccia davanti a questo tizio, non se ne parla proprio. Ho passato di peggio. Vorrà dire che sopporterò. L'altro afferra, deciso, la mia destra. Cerco di contrastare la sua stretta, ma è come se fossi finito in una morsa. Tento di non darlo a vedere. Lui, neanche a dirlo, ride. Molla la mano all'improvviso.

«Ha ragione » dice, in tono serio, puntandomi contro il suo dito indice.
«Su cosa? » domando io.
«Che è un cafone » ribatte lui.
Resta a guardarmi, divertito, mentre il mio viso diventa sempre più cupo. Questa non me l'aspettavo di certo. D'un tratto prorompe in una risata, talmente sonora, che alcuni passeggeri, incuriositi, si affacciano per vedere che cosa sia successo di così clamoroso.
«Scherzavo, via. Pianigiani Ubaldo.» dice, e sempre ridacchiando, aggiunge « Non te la sei mica presa, vero?» .

Mi dà una pacca sulla spalla. Non te la sarai mica presa, ripeto tra me e me. M'ha dato del tu. Resto interdetto, ma faccio buon viso a cattivo gioco. Inizio a ridere anche io, ma non per allegria. Forse imbarazzo, ma più probabilmente stizza. Ci rimettiamo entrambi a sedere. Nessuno dei due ha altro da dire. Cala il silenzio. Mi volto verso il finestrino. Stiamo entrando nella stazione di Firenze. Il tempo è passato senza che ce ne accorgessimo. Ci salutiamo, senza troppa convinzione. Raccolgo la mia roba ed esco dallo scompartimento. Lui mi ha preceduto. E' un paio di metri avanti a me. Ma guarda che tipo, penso, mentre cammino incolonnato con gli altri passeggeri. Guardo avanti.

Lui, ha aumentato il vantaggio su di me. Ormai è prossimo all'uscita. Io non ho fretta e forse mi fa anche piacere che tra di noi si metta tutta questa distanza. Non vorrei trovarmi di fronte a lui e alla sua ragazza. Eh no, un'altra situazione imbarazzante no. La mia razione per oggi termina qui, mi dico. Arrivo all'esterno, che lui è ancora lì. In attesa. Mi fermo. Vedi se non ti danno buca, penso. Spero in una piccola rivincita. Mi guardo attorno per cercare un taxi. Arriva una macchina che sembra quella di Giulia. Stesso modello, stesso colore. Ma che dico, quella è la macchina di Giulia. Comincio ad avvicinarmi, incredulo. Anche lui l'ha vista. L'auto si ferma lì vicino. Lei scende e gli va incontro. Non si accorgono di me.

Si abbracciano. Si baciano. Sono come paralizzato. Non riesco a fare un passo di più. Non ho neanche la forza di arrabbiarmi. Resto a guardare, senza fare assolutamente nulla, un tizio rozzo, ignorante e per di più grasso come un maiale, che se ne va con la mia ragazza. La mia ragazza. L'auto si allontana, fino a scomparire. Mi chiedo che cosa posso fare, arrivato a questo punto. Li raggiungo e li copro di insulti. No, troppo banale. Aspetto domani, e se c'è anche lui, li copro di insulti. E se lui non c'è? Me la prendo solo con lei. No. No. Ma che cosa vado a pensare.

Non mi riconosco più.
Sto mettendo in fila una serie di scemenze indegne di me. Non mi rimane che andarmene. In definitiva, concludo, anche io ho fatto cornuto lui. Rientro in stazione. La cosa che veramente mi stupisce è che ho sempre pensato che sarei andato in pezzi in una situazione come questa. E invece no. O si tratta di un sangue freddo eccezionale, oppure sono diventato idiota all'improvviso. Forse tutte e due le cose, conoscendomi. Arriva il treno. Mi siedo senza far caso a chi c'è nello scompartimento. Qualcuno dice qualcosa, forse rivolgendosi a me. Non lo ascolto. Che pensi pure che sono un maleducato. Non me ne importa nulla. Cominciamo a muoverci. Passano i minuti. I vagoni sfrecciano in mezzo alla campagna. Il loro movimento regolare, sembra cullarmi. Mi sta venendo sonno. Guardo fuori. Chiudo gli occhi sempre più spesso, e prima che il buio mi avvolga completamente, ho il tempo e la forza di pensare un'ultima cosa: il paesaggio, visto dal treno, è più monotono di quanto sia in realtà.

Luciano



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