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"La Sexy Paris Hilton in Nine Lives!"

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Ci sono dei film che non vogliono dire niente e significano tutto. Per questo tra un melodramma di Almodòvar e un horror di Zampaglione sceglierò sempre il secondo.
Trailer
Detesto i manifesti ideologici ma mi ricordo un tale, un docente di filosofia antica (uno stronzo), tutto flaccido e cifotico – aveva il mito di Wittgenstein e ne scimmiottava il temperamento nevrotico, astutamente devo ammettere – che aveva visto un film di non so chi e ci ammorbava gli zebedei sfumacchiando la pipa come Sherlock Holmes – il primo, non quello ipertonico di Downey Jr. – e pontificando sul fatto che quel film era il miglior film per capire la condizione delle popolazioni hassidiche.

Ma secondo te, brutto s*****o di un docente di filosofia antica, me ne può fregare un c****o di qualcosa della condizione delle popolazioni hassidiche?
Video
Questo per dire che Nine Lives (non quello con Wesley Snipes, ma un film del 2002) che ho rivisto l'altro ieri perché c'è Paris Hilton la quale adesso è in fase decadente e quindi mi sta più simpatica, è l'esempio giusto di questa differenza fondamentale tra messaggio e significato.

Un gruppo di amici rinchiuso in una casa. Sono giovani, ricchi, belli, sexy e snob. Non a caso la loro leader carismatica è appunto Paris Hilton, oziosa e vanitosa ereditiera, che ha immolato la propria esistenza all'altare del glamour e che in ogni film in cui offre la propria (non scontata) fisicità non può non riprodurre l'idea di esistenza patinata di cui ha ammantato l'estrema sua prova finzionale, ovvero la vita reale. Fortunatamente (per chi ancora è animato da rivendicazioni di classe) è anche sempre la prima a essere eliminata (scartata) nei modi più orrendi: accade qui e soprattutto nell'ottimo La maschera di cera, dove la Hilton assurge a icona brutalizzata di un universo, quello contemporaneo, mascherato e nascosto sotto la superficie di un'illusione in via di sfaldamento che (Baudrillard insegna) è arrivata a sostituirsi, nell'evento dell'immagine, all'esperienza della realtà, generando esclusivamente angoscia, spaesamento e brutalità.

Brutalità inevitabile: quando l'evento dell'immagine (o l'immagine che si fa evento) si sostituisce all'esperienza, per conquistare lo statuto di realtà matura, nella propria rappresentazione, la necessità di un'efferatezza visiva sempre crescente.



E questo forse spiega, almeno in parte (un'altra parte è desumibile da una frase di Dylan Dog pronunciata in un albo del 1986 ma tanto più valida nel tempo oscuro che stiamo attraversando: “Viviamo nella paura”), la proliferazione di film horror che registra la storia del cinema in questi ultimi anni (giapponesi inclusi).

Paris Hilton appartiene quindi, parafrasando Roland Barthes, contemporaneamente all'idea e all'evento, e nella propria automitologia (e autoiconologia) si transustanzia come perfetta icona pop della borghesia rinchiusa tra le soffocanti pareti dalla forza oscura dell'Angelo sterminatore di Buñuel. Borghesia ludica e disincantata, ma anch'essa destinata all'oblio. Uno a uno, inesorabilmente, come i proverbiali dieci piccoli indiani di christiana memoria, gli ospiti della casa vengono sterminati.

La svolta (il detour) però è immediata, perché la razionalità viene subito torta in favore di una gotica ragione esoterica, e la casa dei misteri diventa, mise-en-abîme, una casa dei fantasmi, presieduta e posseduta da forze incontrollabili che ci gettano nel panico di un mysterium assurdo, indecifrabile e senza via d'uscita, come la realtà rinchiusa nel triangolo surreale della sua sintesi più demenziale, la sessualità circense di Paris Hilton.
Foto


Fonte: I 400 calci






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